mercoledì 29 giugno 2016

"BREXIT".....ALCUNI PARERI....


DA "MicroMega" on line


CARLO FORMENTI - Brexit, uno spettro si aggira per l'Europa: la democrazia

cformenti


Uno spettro si aggira per l’Europa: è la democrazia. Dopo il referendum greco, con il quale più del 60% della popolazione di quel Paese ha detto no all’austerità imposta dalla Ue e dalla Troika, è arrivata la Brexit, che ha visto una maggioranza meno netta, ma per molti versi più significativa, di cittadini inglesi chiedere il divorzio dalle istituzioni oligarchiche di quell’Europa che impone gli interessi del finanzcapitalismo globale ai propri sudditi.

In entrambi i casi non ha funzionato la campagna del terrore orchestrata da partiti di centrosinistra e centrodestra, media, cattedratici, economisti, “uomini di cultura”, esperti di ogni risma, nani e ballerine per convincere gli elettori a chinare la testa ed accettare come legge di natura livelli sempre più osceni di disuguaglianza, tagli a salari, sanità e pensioni, ritorno a tassi di mortalità ottocenteschi per le classi subordinate e via elencando.

In entrambi i casi la sconfitta è stata accolta con rabbia e ha indotto l’establishment a riesumare le tesi degli elitisti di fine Ottocento-primo Novecento: su certi temi “complessi”, che solo gli addetti ai lavori capiscono, non bisogna consentire alle masse di esprimere il proprio parere, se si vuole evitare che la democrazia “divori se stessa”. Ovvero: così ci costringete a imporre con la forza il nostro punto di vista.

In entrambi casi ciò è infatti esattamente quanto è successo. In Grecia con il ricatto che ha indotto Tsipras a calare le brache e tradire ignominiosamente il verdetto popolare. In Inghilterra con il tentativo di far pagare così cara la Brexit a coloro che l’hanno votata da dissuadere altri a imboccare la stessa strada (non a caso il risultato deludente di Podemos e la marcia indietro di 5Stelle sull’Europa sono state accolte con soddisfazione: la lezione è servita a qualcosa…).

In entrambi i casi le élite hanno dispiegato tutto il loro disprezzo nei confronti dei proletari “sporchi, brutti e cattivi“ che si sono ribellati ai loro diktat. Imitati dalle sinistre: tutte, anche quelle che si proclamano radicali e antagoniste: non si può stare dalla parte degli operai inglesi perché sono egemonizzati dalla destra razzista e xenofoba (qualche idea sul perché ciò sia avvenuto?). I peggiori sono quegli intellettuali post operaisti che ormai sono parte integrante del polo liberal chic che definisce l’essere di sinistra o di destra non in base all’appartenenza e agli interessi di classe, bensì in base all’impegno per i diritti individuali, e affida l’emancipazione sociale a un immaginario “comunismo del capitale”.

Ho quindi accolto con piacere un intervento di Bifo che ha rotto il fronte “europeista”, riconoscendo che l‘aspetto dirimente del voto inglese non è il colore ideologico, ma da quali interessi di classe è stato dettato. Credo però che occorra fare altri due passi: 1) chiedersi perché i giovani “creativi” hanno votato in massa Remain; 2) ragionare concretamente sulla forma politica che oggi assume la resistenza proletaria al finanzcapitalismo e alle sue istituzioni oligarchiche.

Affrontare il primo punto significa fare i conti con il mito del cognitariato, prendere atto che questo gruppo sociale non ha mai espresso, non esprime, né mai esprimerà una cultura anticapitalista, che il suo strato superiore è parte integrante delle élite e, in quanto tale, è un nemico di classe, mentre lo strato inferiore – che continua a nutrire la speranza in una illusoria mobilità sociale, benché falcidiato da precariato, redditi miserabili, condizioni di vita oscene – potrà prendere coscienza dei propri interessi solo se egemonizzato dalla spinta antagonista che viene da fuori e dal basso.

Quanto al secondo punto: se è vero – come è innegabile non appena si guardi a quanto avviene negli Stati Uniti e in tutti i Paesi europei – che oggi la lotta di classe assume la forma dell’opposizione alto/basso, dell’odio per le élite politiche ed economiche (que se vayan todos), del rifiuto di ogni forma di delega, che assume cioè una forma populista, occorre decidersi a prenderne atto – perché la teoria e la prassi politica rivoluzionarie sono una cosa sola, sono cioè analisi concreta della situazione concreta – e agire di conseguenza.

Il populismo di destra si combatte con il populismo di sinistra, non con le ammoine radical chic. Il che vuol dire lotta per l’egemonia (cioè cambiare il senso di parole come popolo, comunità, sovranità, ecc. trasformandole in armi nella battaglia fra i flussi globali del capitale e i luoghi da cui i flussi estraggono valore), costruire blocco sociale a partire dal basso e non dall’alto delle nuove aristocrazie del lavoro, costruire organismi di democrazia diretta e riaprire la vecchia sfida, tenendo conto che l’unica cosa che oggi produce contro terrore rispetto al terrorismo psicologico delle élite è la democrazia e che, dopo la morte della democrazia rappresentativa, l’unica forma di esistente di democrazia è appunto il populismo.

Carlo Formenti

(28 giugno 2016)

martedì 28 giugno 2016

"BREXIT"...ALCUNI PARERI



DA "MicroMega "on line


GIORGIO CREMASCHI - Brexit, l'inizio della fine per l'Europa delle banche e dell'austerità

gcremaschi




Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla UE. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika.

Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia.

Con questo voto muore subito il TTIP, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della UE dell'Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell'austerità.

Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della UE perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader. Anche in questi giorni c'è stato chi ha detto che si sta nella UE per cambiarla, peccato che la UE sia indisponibile a qualsiasi cambiamento vero e come tutte le tirannie può solo crollare, non cambiare.

Nel no alla UE è stato decisivo il popolo laburista, che non ha seguito le indicazioni del suo establishment politico e sindacale, ma ha premiato l'impegno di minoranze coraggiose, come il glorioso sindacato dei ferrovieri che abbiamo conosciuto come Eurostop. Minoranze oscurate dai mass media, ma che sono state determinanti.

Il popolo della sinistra britannica ha chiarito che sinistra ed europeismo oggi sono incompatibili e che la battaglia contro la UE delle banche è stata egemonizzata finora da forze di destra perché la sinistra ufficiale ha abbandonato il suo popolo. Ora questo popolo ha bisogno di altri rappresentanti, che in nome della eguaglianza sociale e della democrazia e non dei mercati, ricaccino le destre dal terreno abusivamente occupato.

Ora si apre l'epoca del coraggio e tutto si rimette in moto, sarà dura ma questo voto mostra che l'epoca della globalizzazione senza diritti sociali è finita, sono gli stessi mercati a crollare sul potere di argilla che hanno costruito. Tornano i popoli, gli stati, le politiche economiche, i diritti sociali e del lavoro. Sarà dura e non sarà breve, ma c'è tutta una classe dirigente europea da rottamare. Cominciamo qui votando NO al referendum di ottobre e mandiamo a casa Renzi e la sua controriforma costituzionale, voluta dalla UE delle banche. E dopo la Renxit avanti con la Italexit. Grazie al popolo britannico che come nel 1940 dà il via al percorso di liberazione dell'Europa, gli Spitfire sono spuntati dalle urne.

Giorgio Cremaschi

(24 giugno 2016)

venerdì 17 giugno 2016

"USCIRE DALL'EURO........."


Gentili lettori vi propongo questo nuovo articolo, tratto da "Associazione -Economia per i CITTADINI, (www.enricoberlinguer.it) "allo scopo di formarvi un'opinione personale sull'eventuale uscita dell'Italia dall'euro.
L'articolo in questione richiede un po' di pazienza nella sua lettura perché è articolato quindi un poco lungo, personalmente l'ho trovato interessante, soprattutto in relazione alle "grida"terroristiche di taluni giornalisti o altri personaggi politici e non, e uomini di cultura. 
Tengo a precisare che le argomentazioni lette sono avulse da ideologie politiche e interessi di partito, ma,secondo me, sono il frutto di considerazioni esclusivamente tecnico-finanziarie ed economiche.









Ecco perché uscire dall’Euro non è un dramma







 

I

Il terrorismo psicologico de Il Sole 24 Ore. Ecco perché uscire dall’Euro non è un dramma.
Questa mattina, appena acceso il mio pc, mi imbatto in questo divertente quanto vergognoso articolo del 9 novembre scorso de "Il Sole 24 Ore". Al suo interno viene riportato che "l’Europa, la politica e gli economisti farebbero bene a descrivere alla gente che cosa succederebbe ai loro redditi e risparmi nel «day after» di un’uscita dall’euro: l’apocalisse finanziaria."

Ed infatti, gli illustri conoscitori dei sistemi monetari moderni del Sole 24 Ore, ci raccontano che: "Con il controllo sui movimenti di capitale e sui viaggi in Paesi esteri, i rispettivi Governi potrebbero avere il tempo di ristampare gli euro e di convertirli in nuova carta moneta. Il problema è che per arrivare a questo obiettivo servirebbero altre due misure da panico: il congelamento dei conti correnti fino alla loro conversione nella lira o nella dracma […] E qui viene fuori un altro mostro: alle prime indiscrezioni su un ritorno alla vecchia valuta, la gente prenderebbe ovviamente d’assalto le banche per ritirare i depositi in euro e portarli all’estero prima che la banconote vengano ristampate […] i debiti dovrebbero essere immediatamente ridenominati nella nuova valuta in modo da evitare un’ondata di bancarotte istantanee delle famiglie, che vedrebbero il loro debito invariato ma i loro redditi ridotti al minimo per il ridottissimo valore delle nuove banconote […] Il Governo, da parte sua, non starebbe meglio: impossibilitato ad andare sui mercati, e probabilmente snobbato dai vecchi partner europei, dovrebbe azzerare immediatamente il deficit, sospendendo di conseguenza il pagamento degli interessi ai creditori." Queste e altre affermazioni drastiche sono citate all’interno dell’articolo.

 

Questo è, ovviamente, terrorismo psicologico e mediatico allo stato puro!

 

Allora cosa dovrebbe fare lo Stato italiano se uscisse dall’Unione Monetaria Europea?


 

• Innanzitutto possiamo dire che una svalutazione della nuova Lira del’60-70% non è stata stimata da nessuno ma si potrebbe assestare intorno ad un 27% (1 nuova Lira equivarrebbe cioè a 0,98 dollari (il tasso di cambio fra € e $ nel 2002-2003).

C’è da dire comunque che una svalutazione incentiverebbe enormemente le nostre esportazioni, le quali, è sempre bene ricordarlo, terrorizzavano i tedeschi (fino all’entrata in vigore dell’euro che ha di fatto distrutto il nostro commercio estero).

 

• Appena usciti dall’Euro, il Governo dovrebbe cominciare a riscuotere le tasse ESCLUSIVAMENTE nella nuova Lira. Questo comporterebbe che chiunque (dal multimiliardario, all’operaio, al disoccupato, ecc…) deve domandare Lire dato che nessuno le ha.

 

• Questo genera un aumento vertiginoso della domanda di nuova moneta (le nuove Lire), rivalutandola.

 

• Il Governo NON deve convertire i conti correnti in Lire. Li dovrà lasciare in Euro (poichè nessuno ci vieta di tenere dei conti correnti in una valuta estera) e ci penseranno i singoli cittadini a cambiare (vendere) gli Euro in Lire (questo genera un’aumento dell’offerta di Euro che porterebbe sicuramente ad una sua svalutazione e un ulteriore aumento della domanda di Lire - oltre che per le tasse - rivalutando quest’ultime).

 

• Cominciando a tassare nella nuova moneta, vuol dire che il Governo pagherà anche tutti gli stipendi pubblici esclusivamente nella nuova Lira (ciò vale anche per gli stipendi non pubblici; saranno espressi nella nuova Lira).

 

• Una volta stabiliti i punti precedenti, il Governo dovrà attuare una politica di Piena Occupazione (Employer of Last Resort - Datore di Lavoro di Ultima Istanza). Ciò vuol dire che il governo, con una propria moneta sovrana, può acquistare tutta l’occupazione che vuole.

Tutto "l’esercito industriale di disoccupati"', per dirla marxianamente, verrebbe assunto dal Governo ad un salario deciso da quest’ultimo. Tutti i disoccupati avranno così una occupazione (la quale può essere anche in lavori socialmente utili ed in Italia ce ne sarebbero a migliaia da fare: tutela ambientale, riqualificazione e recupero di edifici abbandonati, riassestamento idrogeologico del territorio, assistenza agli invalidi, agli anziani, ai bambini, costruzione di infrastrutture pubbliche, ospedali, scuole, ecc…). Queste politiche di occupazione furono attuate anche sotto la presidenza Roosevelt, con i nomi, ad esempio, del Work Progress Administration, il National Youth Administration o il Civilian Conservation Corps.

 

• Un aumento dell’occupazione (grazie all’ELR) genera un aumento di consumi (la gente lavorando ha più reddito e quindi consuma di più), il quale porta ad un aumento della produzione per le aziende e le imprese, quindi a maggiori investimenti di queste, i quali a loro volta generano un aumento di occupazione, quindi crescita dei redditi, aumento dei consumi, dei risparmi e così via. Si genera un circolo virtuoso che farebbe rinascere l’economia. Questo porta anche ad un ritorno degli investitori (e non come dice Il Sole 24 Ore alla fuga dei capitali la quale sta avvenendo proprio con l’Euro, soprattutto verso gli USA) nel paese poiché vedono l’economia in ripresa e sanno che uno Stato con una propria moneta sovrana può ripagare senza problemi ogni debito che ha espresso nella propria moneta .

Il programma di Piena Occupazione governativa (ELR) terminerà solamente quando l’economia avrà raggiunto un livello tale di sviluppo da garantire la Piena Occupazione senza l’intervento dello Stato. Solo allora il governo rilascerà i lavoratori dall’ELR i quali potranno trovare una occupazione nel settore privato (imprese, aziende, ecc…).

 

• Per quanto riguarda la snobbatura del governo che uscisse dall’Euro, c’è da dire che è tutto l’opposto. Come scrissi nei miei precedenti articoli, la Russia e l’Arabia Saudita, quindi i principali esportatori di risorse energetiche, accettano sempre meno pagamenti in Euro (chissà come mai eh…).

Inoltre tempo fa scrissi anche, prendendo la notizia dal Wall Street Journal (ma che si può trovare anche in italiano su RaiNews24) che la Swift, ovvero l’agenzia belga che si occupa della gestione dei codici elettronici riguardanti le transazioni finanziarie internazionali, venne contattata da due banche di “importanza globale” che le chiedevano di fornire loro i vecchi codici per i sistemi di gestione delle vecchie monete europee, cioè Dracme, Escudo e Lire.

Ovvero, questi due colossi bancari ”hanno preso delle misure” per tornare a gestire le transazioni finanziarie in Lire, Dracme, Escudo.

Tradotto: sanno che saltiamo in aria, che stiamo implodendo.

Quindi diciamo che se una snobbatura c’è e/o ci sarà è proprio nei confronti dell’Euro, non nei confronti del paese uscente dall’UME.

 

• Per quanto concerne il debito pubblico lo Stato si impegnerà a ripagarlo in Lire, cioè nella sua nuova moneta sovrana. Se i creditori accettano tale pagamento bene (meglio Lire che un pugno di mosche), altrimenti non prenderanno nulla e il debito non verrà ripagato (personalmente credo che i titoli detenuti dai pensionati (ad esempio), dal piccolo risparmiatore che ne posseggono uno, vadano assolutamente ripagati nella nuova moneta con cui lo Stato non può mai essere insolvente, come ho scritto qui). La questione del non ripagamento del debito (o della sua parte illegittima, vedasi il caso Ecuador - che io personalmente sostengo - sotto la presidenza di Rafael Correa) è solamente una questione di giustizia sociale o di morale. Il debito espresso nella propria moneta sovrana non è assolutamente MAI un problema, anzi è la ricchezza dei cittadini (per una panoramica generale dell’argomento leggete qui).

 

• Sulla questione dei mutui espressi in Euro si dovrebbe seguire l’esempio della Slovenia che, come ha spiegato egregiamente il professor Michael Hudson nel Summit di Modern Money Theory a Rimini dal 24 al 26 Febbraio scorso, ha ridenominato tutti i mutui nella propria moneta sovrana. Facendo altrettanto potremmo annullare la nostra clausola con l’Euro, pagando il nostro mutuo con le nostre nuove Lire.

 

Ovviamente sarebbe meraviglioso credere che una classe politica indegna come quella italiana, possa attuare una simile politica economica pro-collettività, pro-democrazia, pro-cittadini.

Ma ora sapete che non è vero, che è una enorme balla la favola della TINA (There Is No Alternative - Non c’è alternativa) e dell’austerità necessaria.

Attuare i punti da me pocanzi descritti significa attuare una politica economica di Modern Money Theory, una scienza economica con alle spalle oltre 100 anni di storia del pensiero economico (Marx, Knapp, Innes, Keynes, Lerner, Robinson, Minsky, Goodhart, Godley, ecc…).

Significa dare una speranza concreta, una scialuppa di salvataggio, tendere una mano a chi è stato distrutto, svergognato, umiliato, ridotto alla fame dal crimine dell’Euro.

 

Valerio Spositi





Articolo del 21 Giugno 2012

giovedì 16 giugno 2016

DALL'EURO SI PUO' USCIRE .........(.E SI DEVE USCIRE....)

 

Gentili lettori vi propongo la lettura dell'articolo, qui sotto trascritto, allo scopo di formarvi se lo ritenete opportuno una vostra personale opinione sulla possibilità di uscire dall'euro.



Articolo tratto da "MicroMega"on line:

 

Gallino: Perché l'Italia può e deve uscire dall’euro




di Luciano Gallino, da Repubblica, 22 settembre 2015

L’Italia ha due buoni motivi per uscire dall’euro, un tema di cui si parla ormai in tutta Europa (Germania compresa). Il primo è che, sovrapponendosi alle debolezze strutturali della nostra economia, l’euro si è rivelato una camicia di forza idonea solo a comprimere i salari, peggiorare le condizioni di lavoro, tagliare la spesa per la protezione sociale, soffocare la ricerca, gli investimenti e l’innovazione tecnologica e, alla fine, rendere impossibile qualsiasi politica progressista.

Risultato: otto anni di recessione, che hanno provocato la perdita di quasi 300 miliardi di Pil al 2014 rispetto alle previsioni del 2007; 25% di produzione industriale in meno, un mercato del lavoro di cui è difficile dire quale sia l’aspetto peggiore fra tre milioni di disoccupati, tre-quattro di precari e due o tre di occupati in nero. Grazie ai quali l’Italia detiene il primato dell’economia sommersa tra i Paesi sviluppati, pari al 27% del Pil e circa 200 miliardi di redditi non dichiarati. I costi economici e sociali dell’euro superano i vantaggi.

Il secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo ammontare del debito pubblico, il che rende di fatto impossibile per l’Italia far fronte agli oneri previsti dal cosiddetto Fiscal compact e a una delle clausole fondamentali dell’Unione economica e monetaria. Il Fiscal compact prevede infatti che in vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ Pil, che si aggira oggi sul 138%, dovrebbe scendere al 60, limite obbligatorio per far parte dell’eurozona. In tale periodo detto rapporto dovrebbe quindi scendere di 78 punti, cioè 3,9 l’anno. In termini assoluti si dovrebbe passare dal rapporto 2200/1580 miliardi di oggi a 948/1580 nel 2035 (da convertire nel rispettivo valore del ventesimo anno).

Vi sono solo due modi di raggiungere tale risultato, e infinite combinazioni intermedie che però non lo cambiano: o il Pil cresce di oltre il 5% l’anno per un ventennio, o il debito pubblico scende di oltre 3 punti percentuali l’anno. Tenuto conto che le ipotesi più ottimistiche di crescita del Pil per i prossimi anni si collocano tra l’1 e il 2% l’anno, e che il servizio del debito — 95 miliardi nel 2015 — continuerà a ingoiare decine di miliardi l’anno, ambedue le ipotesi non sono concepibili.

In altre parole è impossibile che l’Italia riesca a rispettare il Fiscal compact. L’Italia si ritrova così nella condizione degli Stati membri della Ue che attendono di entrare nell’eurozona perché debbono soddisfare alcune clausole previste dal trattato sull’Unione economica e monetaria. Come dire che l’Italia è tecnicamente già fuori dall’eurozona, poiché non è in condizione di soddisfare a una delle clausole chiave: un rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%. Tale situazione dovrebbe essere invocata per recedere dall’eurozona.

Non sono necessari sfracelli per arrivare a tanto. Basta far ricorso all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione europea, comprendente le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona il 1° gennaio 2009. Esso stabilisce che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione (paragrafo 1)”. Il paragrafo 2 precisa quali vie il procedimento di recesso deve seguire. Lo Stato che decide di recedere notifica l’intenzione al Consiglio europeo. L’Unione negozia e conclude un accordo sulle modalità del recesso. L’accordo è concluso dal Consiglio a nome dell’Unione.

Dalla lettura dell’art. 50 si possono trarre alcune considerazioni: a) la recessione avviene dopo un negoziato; b) il negoziato è condotto sotto l’autorità del Consiglio europeo, organo politico; c) è dato presumere che quando uno Stato notifica l’intenzione di recedere, determinate misure tecniche, tipo un blocco temporaneo all’esportazione di capitali dallo Stato recedente, siano già state predisposte in modo riservato.

Mentre l’art. 50 ha posto fine all’idea che la partecipazione all’Unione sia per sempre irrevocabile per vie legali, qualche dubbio sussiste sulla possibilità di recedere dalla Uem — la veste giuridica dell’euro — senza uscire dalla Ue, poiché l’articolo in questione menziona soltanto questa. Peraltro la letteratura giuridica ha ormai sciolto ogni dubbio: poiché il trattato sulla Uem è soltanto una parte della struttura giuridica della Ue — esistono Stati membri della Ue ma non dell’eurozona — è arduo negare il principio per cui uno Stato membro possa recedere dalla Uem ma non dalla Ue. Per cui il negoziato per l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi per la recessione dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola uscita dall’eurozona. Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe dinanzi ad altri 27 Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni sorta di restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi. L’impossibilità di accedere ai mercati Ue costringerebbe uno Stato ad affrontare costi di entità paurosa.

Resta da chiedersi dove stia il governo capace di condurre un negoziato per la recessione dell’Italia dall’eurozona in base all’art. 50 del Trattato sulla Ue. L’attuale, come quasi tutti i precedenti, è un esecutore dei dettati di Bruxelles, Francoforte, Berlino. Chiedergli di aprire un negoziato per uscire dall’euro non ha senso. Si può coltivare una speranza. Che si arrivi a nuove elezioni, dove ciò che significa recedere dall’euro in termini di ritorno della politica a temi quali la piena occupazione, la politica industriale, la difesa dello stato sociale, una società meno disuguale, sia al centro del programma elettorale di qualche emergente formazione politica. Prima di cedere alla disperazione, bisogna pur credere di poter fare qualcosa.

(22 settembre 2015)
 
 
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A cura dell'autore del blog Marco Buonarroti :
 
Chi è Luciano Gallino?
 
Gallino, Luciano (Torino 1927), sociologo italiano. Nel 1956 fondò, con Adriano Olivetti, un centro di ricerca sociologica e fu uno dei primi in Italia a compiere studi di sociologia industriale e del lavoro. Professore incaricato di sociologia dal 1965 e dal 1971 titolare di una cattedra di sociologia presso l'Università di Torino, ha diretto la rivista 'Quaderni di sociologia' e ha ricoperto la carica di presidente del Consiglio italiano per le scienze sociali. Negli ultimi anni si è occupato di temi relativi alla scienza informatica e all'intelligenza artificiale.
Tra le sue opere si ricordano: Indagini di sociologia economica e industriale (1962), Questioni di sociologia (1962), Dizionario di sociologia (1978), Informatica e qualità del lavoro (1983), L'attore sociale. Biologia cultura e intelligenza artificiale (1987), L’incerta alleanza. Modello di relazioni tra scienze umane e scienze sociali (1992), Globalizzazione e disuguaglianze (2000).
(da Microsoft Encarta Enciclopedia on line)