Da Pecorelli alla mafia: il lato oscuro del Divo
Belzebù è salito in cielo ieri alle 12,25. Sì, in cielo, non agli inferi come a Satana spetterebbe, non solo perché l'Italia ha memoria cortissima, non solo perché fino a poco tempo fa frequentava i papi e la sua parrocchia alle sei di ogni mattina, ma perché nel succedersi delle ere l'imprinting nazionale rimane a tutt'oggi il neoandreottismo. Un cocktail di furbizie e potere, levità e cinismo, pragmatismo e menzogna, impulsi delinquenziali e intuizioni folgoranti.
È stato al tempo stesso l’incarnazione del potere e il back-office del potere, in un vortice di mafiosi e fascisti, bancarottieri e generali felloni, faccendieri e cardinali empi, massoni e opusdeisti. Ma in cielo è salito ieri come statista impagabile e padre della patria.
«Mi hanno attribuito tutto tranne le guerre puniche», diceva con la sua vocina riservata agli aforismi. «Ma tu vuoi attribuirmi pure le guerre puniche », mi disse una volta in ascensore. Lo conoscevo da bambino, vicino di pianerottolo andavo a scuola con i suoi figli sulla Topolino blu del portiere. Lui, già ministro, tornava a casa su una lancia blu, talvolta in frac e tuba.
Poi dovetti occuparmi di lui professionalmente per quarant’anni, mai attribuendogli le guerre puniche, ma qualche infima frazione della verità, concetto a lui pressoché sconosciuto e comunque non praticato nelle più oscure vicende della prima Repubblica. Fu lui che nominò «salvatore della lira» Michele Sindona, il bancarottiere mafioso che stava depredando le banche e il paese, importando a Milano i metodi di Chicago, sulla scia dei predecessori referenti della mafia siciliana nella capitale del nord, Michelangelo Virgillito e Raffaele Ursini.
Ci fu la sua firma, sempre negata, al killeraggio di Paolo Baffi, il grande economista gentiluomo successore di Guido Carli come governatore della Banca d’Italia, che subì l’onta di un’accusa di favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio per essersi opposto al disegno di grassazione mafioso. Il direttore generale della Banca d’Italia Mario Sarcinelli fu addirittura incarcerato, mentre Ugo La Malfa si disperava per l’attacco indegno alla più prestigiosa tecnostruttura di cui il paese era dotato. Non erano le guerre puniche, ma una deliberata operazione organizzata da Franco Evangelisti (quello cui il palazzinaro Gaetano Caltagirone chiedeva «‘A ‘Fra che te serve?»), il luogotenente ufficiale al vertice della corte dei miracoli che orbitava intorno a «Zio Giulio», come lo chiamavano direttori generali, palazzinari, appaltatori, mafiosi, boiardi statali piccoli e grandi. Sindona, per chi non lo ricordasse, finì avvelenato in carcere con una tazzina di caffè dopo aver fatto uccidere Giorgio Ambrosoli, e resta il mistero su chi fornì la bustina di zucchero avvelenato.
«De Gaspari parla con Dio, Andreotti col prete», disse di lui Indro Montanelli. Quando il giovanotto ventottenne, già precocemente ingobbito o «collotorto» come dicevano dei devoti praticanti i comunisti che mangiavano i bambini, era sottosegretario. Diventato pluri-pluri ministro e presidente del Consiglio, Andreotti parlò per tutta la vita sia con Dio che col prete. Dal Papa a Ciarrapico, dal presidente degli Stati Uniti a Licio Gelli, da Gheddafi a Caltagirone. E con fior di mafiosi.
Quando Piersanti Mattarella, presidente della regione siciliana, decise di fare pulizia nella Democrazia cristiana locale ed entrò nel mirino delle canne mozze lui andò a parlare col boss Stefano Bontate. Ma non evitò la fucilata che uccise Mattarella il 6 gennaio del 1980. La Dc siciliana era e restò la frangia politica più inquinata da presenze mafiose, soprattutto quelle legate alla corrente andreottiana, come disse il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, anche lui finito ammazzato. Da Salvo Lima, finito anche lui sotto il fuoco mafioso perché ritenuto non più affidabile dai capi, a Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo, che riciclava le tangenti transitanti per l’Istituto per le Opere di Religione nei fruttuosi investimenti immobiliari a Milano. Come in una sorta di incrocio di destini, una trama in cui tutto si tiene nei decenni, nascevano allora le fortune palazzinare berlusconiane con Milano 2 e Milano 3, mentre i controllori mafiosi presidiavano Arcore e la Banca Rasini in piazza del Duomo curava gli amici e gli amici degli amici, che non erano solo a Palermo, ma anche nella segreteria di Stato vaticana.
Crediamo di essere certi che mai Andreotti ordinò un omicidio, tantomeno quello di Mino Pecorelli, il giornalista ricattatore legato ai servizi segreti, di cui fu accusato e assolto. Ma non possiamo dire lo stesso della sua corte dei miracoli, degli andreottiani mafiosi e bancarottieri, con i quali egli «collaborò concretamente » fino al 1980, come ha sentenziato la Cassazione nel 2003. Del bacio a Totò Riina non riusciamo a credere, forse sbagliando, immaginandolo come una gag del Bagaglino, ma il legame con la mafia siciliana affonda invece le radici nella testa di un uomo dell’altro secolo che vide gli americani sbarcare in Italia con l’aiuto, anche questo concreto, dei picciotti.
Licio Gelli ha detto ieri che Andreotti ha portato con sé nella tomba le migliaia di segreti che custodiva, a cominciare dall’uccisione di Aldo Moro, che fu rapito nel giorno in cui lui presentava in Parlamento il suo governo. Ma dimentica quei 3500 faldoni di diari e memorie, di cui è già cominciata la caccia.
Chissà se dicono la verità di un uomo senza verità, che avrebbe potuto dire le parole che pronuncia Toni Servillo nel film «Il Divo»: «Tutti a pensare che la verità... Invece la verità è la fine del mondo». Difficilmente ci sarà la verità sul conto segreto dello Ior che da molti gli viene attribuito e che ha terremotato il papato di Ratzinger e ha già messo in ebollizione quello fresco fresco di Francesco.
Una cosa è certa: il Belzebù salito ieri in cielo, che ha speso una vita per il potere e nel potere, ci lascia un paese un po’ a sua immagine e somiglianza, una classe dirigente che peggiore non si potrebbe, affogata nel neoandreottismo e nel neopiduismo.
(7 maggio 2013)
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