Da "Micromega on line"
PIERFRANCO PELLIZZETTI – L’Armata Brancaleone di Renzi
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Vedendo Roberta Pinotti ministro c’è da credere nell’esistenza di un qualche dio”. Un po’ quello che disse Manlio Scopigno, l’allenatore-filosofo del Cagliari campione d’Italia nell’annata calcistica 1969/1970, alla convocazione di Comunardo Niccolai in nazionale.
Per i più giovani preciso che Niccolai era il difensore famoso per una quantità clamorosa di autogol realizzati. Così come la neoministra della Difesa è quella che riuscì ad arrivare ultima nelle primarie 2012 per il sindaco di Genova (evidenziando nei propri concittadini una capacità valutativa ben diversa da quella dell’attuale Presidente incaricato). Ma allora era bersaniana, mentre adesso è fervente renziana. Lo stesso percorso a ricollocarsi del suo ex capobastone, il boss ligure Claudio Burlando. Tutta gente che non va troppo per il sottile nell’afferrare i pioli della scala su cui proseguono la loro carriera di imprenditori di se stessi.
Piuttosto sarebbe da capire che cosa mai abbia intravisto Matteo Renzi nella birignaosa signora; tanto da affidarle la responsabilità politica delle nostre Forze Armate. Forse ha voluto fare riferimento alle di lei lontane esperienze nel corpo dei boy-scout, che la renderebbero edotta nell’arte di accendere un falò coi legnetti o montare una tenda da campo.
Forse solo perché (relativamente) giovane e di sesso femminile.
Scherzi a parte, se in età democristiana i governi si costruivano sulla falsariga del “Manuale Cencelli”, in epoca neodemocristiana la compagine nasce da una rigorosa compulsazione del “Bigino del Politicamente Corretto”; ossia la guida linguistica a gabellare per santità l’eufemismo. Perché genere e anagrafe – di per se stessi – sono soltanto “accidenti”, non “sostanza”. E la sostanza è che questi eroi amboisessi del New Deal renziano – giovani e (alcuni) belli, direbbe Francesco Guccini – hanno una caratteristica fondamentale; come si diceva già per la Pinotti e lo stesso Renzi: sono dei formidabili carrieristi. Non di rado “ercolini sempre-in-piedi”.
Prendete attentamente in considerazione (per un istante) la biografia del Ministro Guardasigilli Andrea Orlando e ritroverete il tipico itinerario del funzionario di partito che, deambulando nei corridoi e nelle periferie del potere, ha smarrito (se mai l’aveva avuta) la spinta ideale e ora bordeggia seguendo venti e correnti. Tanto da aver proposto da responsabile giustizia del PD progetti (punitivi) di separazioni delle carriere dei magistrati fotocopiati da quelli dell’avvocato Ghedini.
Non un bel viatico per chi si attenderebbe dal newdealismo renziano un rafforzamento della legalità. Illuso! Agli scalatori in marcia verso le vette del successo interessa solo mostrare condiscendenza nei confronti del successo stesso. Magari dei suoi surrogati. Tanto da offrire una poltrona ministeriale, apparentemente strategica come lo Sviluppo, a Federica Guidi.
Sia chiaro, non un’esponente delle Lobby (in questo non sono d’accordo con Peter Gomez), ma – semmai – una insignificante ex leader di un movimento ormai insignificante quale quello dei Giovani Imprenditori (da tempo immemorabile il Rotaract Club di Confindustria, asilo-nido dei figli degli industriali). E così via: tra carrieristi pronti al balzo e riciclati alla ricerca della sopravvivenza.
Il tutto avvolto nella nebbiolina sottile del genere e dell’anagrafe. Ossia il luoghi comuni “che più comuni non si può” di qualsivoglia chiacchiera da bar, in cui avventori già un po’ alticci espongono le banalità sul da farsi. L’apoteosi dei preliminari più generici. Non a caso uno serio come Fabrizio Barca, rivelando le pressioni cui era sottoposto per fargli mettere a disposizione della carnevalata ministeriale renziana la sua immagine prestigiosa, lo disse chiaramente: “cosa succederà quando gli italiani capiranno che qui non c’è un’idea che sia una”?
Difatti l’immagine, in questa politica diventata un sottoprodotto del mass-market, è solo l’investimento in immagine di un bel po’ di soldi.
Pierfranco Pellizzetti
(22 febbraio 2014)
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