PERCHE' LE UNIVERSITA'?
(Il post è lungo, lo so, spendete qualche minuto in più, ne vale la pena, credetemi)
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Fino a ieri la società filtrava per noi i contenuti della propria cultura attraverso libri di testo ed enciclopedie; con il web rischiamo di restare sommersi da un eccesso di informazioni, e la differenza fra il silenzio e il troppo rumore può essere davvero minima. Solo le università possono insegnarci come selezionare.
di Umberto Eco, (da"Micromega on line")
Il 18 settembre del 1988, 388 rettori provenienti da tutta Europa e oltre, avevano firmato la Magna Charta Universitatum. Da allora, quel testo è divenuto l’essenziale punto di riferimento circa i valori e i principi fondamentali dell’istituzione universitaria.
A dispetto dei mass media, spesso critici nei confronti del ruolo dell’università in un mondo in cui il Web sembra prossimo a soppiantare le vecchie istituzioni di formazione, credo che la funzione delle università sia oggi più che mai rilevante.
Viviamo un momento storico in cui, nonostante l’ormai lunga vita dell’Unione Europea come istituzione, in molti paesi d’Europa qualcuno dubita che la creazione dell’unità economica per mezzo di una moneta unica sia sufficiente a sviluppare e sostenere l’idea di un’identità europea.
Vorrei ricordare che l’idea stessa di una possibile identità europea nasce nel 1088, con la fondazione della prima università del mondo occidentale. A quell’epoca l’Europa era solo un’espressione geografica che designava la porzione centrale dell’universo conosciuto, sicuramente meglio nota delle ancora fiabesche terre d’Asia e d’Africa, ma non portatrice di valori politici o culturali. C’era il Sacro Romano Impero, allora incarnato da Federico Barbarossa; c’era la Chiesa di Roma, c’erano i regni di Francia e Inghilterra, in feroce competizione tra loro, e i piccoli regni cristiani di Spagna, in lotta contro il dominio arabo; le prime Repubbliche marinare e i primi comuni in Italia, e il primo nucleo della Lega Anseatica: tutti divisi da interessi e idiomi diversi, e uniti solo da una lingua veicolare, il latino medievale, che tuttavia era parlato esclusivamente dagli eruditi.
Fu proprio su questo pidgin culturale che nacquero le università, unico caso di migrazione pacifica di studiosi e studenti: i clerici vagantes che si spostavano di ateneo in ateneo, di città in città, di nazione in nazione, cosicché nei secoli a venire troveremo Erasmo, Copernico, Goffredo di Vinsauf, Paracelso e Dürer a Bologna, e Bonaventura e Tommaso d’Aquino a Parigi. Tutti parlavano la stessa lingua; i problemi dibattuti dagli averroisti a Bologna erano i medesimi discussi alla Facoltà delle Arti a Parigi, e Marsilio da Padova dissertava con Guglielmo da Occam e Giovanni di Jandun su questioni politiche di importanza capitale per l’Impero germanico.
Le università formarono così il primo nucleo di una futura identità europea: l’Europa delle università cessò di essere solo un’espressione geografica, per divenire una comunità culturale. E anche venendo ai nostri giorni, e pensando alla globalizzazione (indubbiamente frutto di numerosi sviluppi politici, militari, scientifici e tecnologici), non dovremmo dimenticare che fu anche attraverso la rete universitaria che Fermi e i suoi colleghi italiani portarono i risultati delle loro ricerche negli Stati Uniti, così come Einstein riunì le esperienze scientifiche europee e americane delle tre università di Berna, Berlino e Princeton.
Credo che questi brevi cenni siano sufficienti per rispondere alla domanda “perché le università?”. Negli ultimi novecento anni, esse sono state crogiuolo di un’identità internazionale, e artefici dei capitoli più creativi nella storia della cultura occidentale.
Possono ancora svolgere un ruolo nel mondo globalizzato di oggi?
Innanzitutto permettetemi una citazione biblica.
Nel primo libro dei Re, capitolo 19, quando Elia si trovava nella caverna del Monte Oreb, allorché fu chiamato alla presenza del Signore, ci fu “un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce”; ma non in vento Dominus, recita la Vulgata, il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto; ma non in commotione Dominus, il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco; ma non in igne Dominus, il Signore non era nel fuoco.
Non si può trovare Dio nel rumore; Dio si palesa solo nel silenzio. Dio non è mai nei mass media, Dio non è mai sulle prime pagine dei giornali, Dio non è mai in TV, Dio non è mai a Broadway. Dio è, dove non c’è agitazione. Questa massima vale anche per chi non crede in Dio, ma pensa che da qualche parte esista una Verità da scoprire, o un Valore da creare. Non si possono trovare verità e creatività in un terremoto, solo in una ricerca silenziosa.
Nel tumulto del mondo odierno, gli unici luoghi del silenzio, accanto alle sedi di meditazione religiosa, restano le università. Sono ancora fra i pochi luoghi in cui è possibile un confronto razionale fra diverse visioni del mondo. Da noi universitari ci si aspetta che combattiamo, seppure privi di armi mortali, l’interminabile lotta per il progresso del sapere e della pietas. Non sono così ingenuo da dimenticare che la conoscenza non porta automaticamente pace e misericordia: la storia ci ha mostrato come le persone possono amare Brahms o Goethe, e allo stesso tempo essere capaci di organizzare campi di sterminio. Ma quelle stesse persone, prima di realizzare la loro soluzione finale, dovettero cacciare dalle università, una per una, tutte le menti critiche: l’università rappresenta da sempre un pericolo per ogni genere di dittatura.
Non di rado, gruppi di accademici hanno avallato il colonialismo, il razzismo e l’intolleranza. Ciò non toglie che è proprio nell’alveo delle università occidentali e delle accademie che il mondo moderno ha concepito quel nuovo approccio alle culture e alle civiltà che va sotto il nome di antropologia culturale. È grazie agli studi degli antropologi culturali del XIX secolo (che a loro volta si rifacevano a idee introdotte da Montaigne, Locke, e ai filosofi dell’Illuminismo) che oggi sappiamo dell’esistenza di altri modelli culturali, autonomi e organici, che vanno riconosciuti, compresi nella loro logica interna, e rispettati. L’antropologia culturale, sostituendo il concetto di cultura a quello di razza, ha lavorato in profondità per renderci tutti più consapevoli delle altre culture, e del diritto di ogni cultura a sopravvivere.
L’antropologia culturale non ha cambiato il mondo. Mentre gli antropologi ci insegnavano a riconoscere e rispettare comportamenti culturali, religioni e costumi etnici diversi dai nostri, il mondo occidentale fabbricava i Protocolli dei Savi di Sion, mentre i primi mezzi di comunicazione di massa, attraverso i romanzi popolari e i film di Hollywood, diffondevano l’idea dell’Altro come Cattivo: il feroce indiano, il nero stupido condannato a un destino di eterna schiavitù dalla sua irrimediabile inferiorità, il cinese col codino, eccetera.
Ma allo stesso tempo, i medesimi stereotipi venivano smontati proprio all’interno dell’ambiente universitario.
L’università è ancora il luogo in cui sono possibili confronti e discussioni, idee migliori per un mondo migliore, il rafforzamento e la difesa di valori fondativi universali, non ordinati negli scaffali di una biblioteca, ma diffusi e propagati con ogni mezzo possibile.
L’università è una Forza di Pace! Basta pensare al progetto Erasmus, che prevede la creazione di una nuova rete internazionale di clerici vagantes, i quali spesso si sposano fra di loro, preparando così, almeno in Europa, una nuova generazione di cittadini bilingui, immuni alle seduzioni di qualsivoglia nazionalismo.
Ma permettetemi anche di citare, a proposito dei doveri dell’università oggi, due compiti che ritengo urgenti e fondamentali.
Spesso ci viene detto che uno dei rischi a cui si espone chi è cresciuto con i mass media, specie le generazioni più giovani, è una crisi della memoria storica. Senza memoria non c’è sopravvivenza. Le società si sono sempre affidate alla memoria per conservare la loro identità, fin da quando gli anziani delle tribù sedevano ogni sera sotto un albero, narrando le imprese degli antenati. E quando, con un atto di censura, si cancella una parte della memoria sociale, la società entra in una crisi di identità.
In questo senso, le università sono ancora luoghi in cui le memorie comuni possono essere inventariate e conservate.
Ma la memoria non è solo inventario, è anche filtro. La memoria storica non è fatta solo di ciò che crediamo sia importante ricordare, ma anche di ciò che pensiamo debba essere dimenticato. Una delle funzioni della memoria sociale e culturale è fare da crivello.
Una cultura, in quanto memoria storica, non è solo un deposito di dati: è anche il risultato del loro filtraggio, e della capacità che abbiamo di scartare tutto ciò che riteniamo inutile o non indispensabile.
La storia di una civiltà è fatta di milioni di dati che sono stati sepolti. Spesso ci accorgiamo che questo processo ha comportato una perdita, e per recuperare le informazioni scomparse ci vogliono secoli. I nostri antenati greci avevano perso memoria della matematica egizia, e il Medioevo non ricordava buona parte della scienza greca. Analogamente, noi oggi abbiamo dimenticato il significato delle statue dell’Isola di Pasqua, e molte delle tragedie citate da Aristotele nella sua Poetica sono andate perdute per sempre.
Nondimeno, a prescindere da questi incidenti indesiderati, una cultura deve eliminare molte informazioni. Quali erano i nomi di tutti i soldati che combatterono a Waterloo? Che ne fu di Calpurnia, moglie di Cesare, dopo le Idi di Marzo? La cultura ha eliminato questi dati per non sovraccaricare la nostra memoria storica.
Peraltro questo processo di cancellazione non agisce solo nella cultura, ma anche nelle nostre vite personali. Jorge Luis Borges ha scritto un bel racconto, Funes el memorioso, su un personaggio che ricordava tutto: ogni foglia che aveva visto da bambino, ogni parola sentita nel corso della sua vita, ogni soffio di vento che gli aveva sfiorato la pelle, ogni frase che aveva letto. E proprio a causa di questa memoria totale, Funes era un idiota, paralizzato dall’incapacità di filtrare e scartare i risultati delle sue esperienze. Il nostro inconscio funziona perché rimuove. Se poi qualcosa ci turba, andiamo a chiedere al nostro psicanalista di recuperare ciò che avevamo rimosso, perché troppo imbarazzante. Ma è importante eliminare tutto il resto: l’anima è frutto di questa memoria selettiva; se la nostra memoria fosse come quella di Funes, saremmo animali senz’anima, cioè senza identità. La nostra identità non è fatta solo delle cose che ricordiamo, ma anche di ciò che riusciamo a dimenticare.
E tuttavia, una cultura non si limita a suggerire agli individui di dimenticare ciò che andrebbe rigettato perché inutile, ma spesso nasconde ciò che essi dovrebbero ricordare. È il ruolo della censura, che assume molte forme, fino alla damnatio memoriae. Una cultura però può censurare non solo per cancellazione e reticenza, ma anche per eccesso di informazione. Ho sempre sostenuto che c’era poca differenza fra la Pravda stalinista e l’edizione domenicale del New York Times: la Pravda censurava le informazioni indesiderate, il Sunday Times invece conta ben 600 pagine, che sicuramente contengono All the News that’s Fit to Print, tutte le notizie che vale la pena stampare, ma che con altrettanta sicurezza nessuno riuscirà a leggere per intero, neppure nell’arco di una settimana. Rischiamo di restare sommersi da un eccesso di informazioni, e la differenza fra il silenzio e il troppo rumore è davvero minima.
Indubbiamente, per quanto concerne il Sunday Times, il lettore ben informato è in grado di selezionare le informazioni pertinenti e di cestinare i supplementi che non gli interessano, ad esempio quelli su mercato immobiliare, sport, casa e giardinaggio, o magari l’inserto letterario. Ma che cosa sta accadendo oggi a quell’eccesso di informazioni che è Internet? Il rischio è che diventi come il cervello di Funes. Finora la società filtrava per noi i contenuti attraverso libri di testo ed enciclopedie; con il web, tutta la conoscenza e le informazioni possibili, anche le meno utili, sono lì a nostra disposizione.
Provate a interrogare il web su un argomento, ad esempio la Shoah. Non esiste alcun criterio che ci dica, a un primo sguardo, se un sito è opera di storici responsabili oppure di un gruppo filonazista negazionista. E se una persona di cultura riesce comunque a capire di che genere di sito si tratta, come se la cavano invece i meno informati che, per la prima volta, cercano sul web alcune nozioni di base sull’evento? L’incapacità di filtrare comporta l’impossibilità di discernere.
Solo le università (e più in generale le istituzioni di formazione) possono insegnarci come selezionare. Occorre inventare, e diffondere, una nuova arte della decimazione. Altrimenti, senza un’Enciclopedia Unificata delle Scienze, tutti avranno diritto a costruirsi la loro enciclopedia: avremo l’Enciclopedia New Age, l’Enciclopedia Nazista, l’Enciclopedia Astrologica, eccetera. Con una tale frammentazione della conoscenza, i sette miliardi di abitanti di questo pianeta potrebbero produrre altrettanti metodi di selezione ideologica, e sette miliardi di lingue diverse, tra loro intraducibili. Il web potrebbe diventare una torre di Babele, in cui si parlerebbero non settanta ma sette miliardi di lingue individuali.
La presenza delle università può costituire una garanzia per i tanti giovani (e meno giovani) che sono alla ricerca di un’enciclopedia affidabile. Creare un’Enciclopedia Comune non equivale a imporre un pensiero unico. È un terreno condiviso su cui verificare e comparare ogni differenza portatrice di ricchezza. L’università è l’unico luogo in cui si può applicare correttamente un approccio unificato alla diversità.
Ma le università sono anche un modo per offrire un eccesso di filtraggio. Le culture (o quantomeno la nostra cultura occidentale, con la sua impostazione filologica) hanno interesse a recuperare dati la cui perdita ci sembra una sventura. Per questo abbiamo bisogno del lavoro di specialisti, storici o archeologi: a loro chiediamo di risuscitare concetti ed esperienze che sono accidentalmente sprofondati nell’oscurità. Con quest’atto, la memoria collettiva può far riaffiorare i dati perduti e può risistemarli, se non in un’Enciclopedia Comune, almeno in una settoriale.
In questo modo, una cultura matura sceglie di mettere alcune informazioni in stato di latenza. Le informazioni in eccesso vengono, per così dire, congelate in modo che, al bisogno, gli esperti possano riscaldarle in un ideale forno a microonde e farle rinvenire, allo scopo di, ad esempio, decifrare un antico documento appena scoperto.
I luoghi di latenza sono assimilabili al modello della biblioteca o dell’archivio, indispensabili contenitori di una sapienza che può essere rivisitata, anche se non è stata frequentata per secoli. Le università, quindi, non sono solo luoghi di indispensabile filtraggio, ma anche, con le loro biblioteche e i loro archivi, custodi di indispensabili informazioni latenti.
Vorrei terminare con l’ultima ragione per cui il ruolo delle università è ancora fondamentale, soprattutto in un mondo che diventa sempre più virtuale: le università sono fra i pochi luoghi in cui le persone si incontrano ancora faccia a faccia, in cui giovani e studiosi possono capire quanto il progresso del sapere abbia bisogno di identità umane reali, e non virtuali.
(1 ottobre 2013)
di Umberto Eco, (da"Micromega on line")
Il 18 settembre del 1988, 388 rettori provenienti da tutta Europa e oltre, avevano firmato la Magna Charta Universitatum. Da allora, quel testo è divenuto l’essenziale punto di riferimento circa i valori e i principi fondamentali dell’istituzione universitaria.
A dispetto dei mass media, spesso critici nei confronti del ruolo dell’università in un mondo in cui il Web sembra prossimo a soppiantare le vecchie istituzioni di formazione, credo che la funzione delle università sia oggi più che mai rilevante.
Viviamo un momento storico in cui, nonostante l’ormai lunga vita dell’Unione Europea come istituzione, in molti paesi d’Europa qualcuno dubita che la creazione dell’unità economica per mezzo di una moneta unica sia sufficiente a sviluppare e sostenere l’idea di un’identità europea.
Vorrei ricordare che l’idea stessa di una possibile identità europea nasce nel 1088, con la fondazione della prima università del mondo occidentale. A quell’epoca l’Europa era solo un’espressione geografica che designava la porzione centrale dell’universo conosciuto, sicuramente meglio nota delle ancora fiabesche terre d’Asia e d’Africa, ma non portatrice di valori politici o culturali. C’era il Sacro Romano Impero, allora incarnato da Federico Barbarossa; c’era la Chiesa di Roma, c’erano i regni di Francia e Inghilterra, in feroce competizione tra loro, e i piccoli regni cristiani di Spagna, in lotta contro il dominio arabo; le prime Repubbliche marinare e i primi comuni in Italia, e il primo nucleo della Lega Anseatica: tutti divisi da interessi e idiomi diversi, e uniti solo da una lingua veicolare, il latino medievale, che tuttavia era parlato esclusivamente dagli eruditi.
Fu proprio su questo pidgin culturale che nacquero le università, unico caso di migrazione pacifica di studiosi e studenti: i clerici vagantes che si spostavano di ateneo in ateneo, di città in città, di nazione in nazione, cosicché nei secoli a venire troveremo Erasmo, Copernico, Goffredo di Vinsauf, Paracelso e Dürer a Bologna, e Bonaventura e Tommaso d’Aquino a Parigi. Tutti parlavano la stessa lingua; i problemi dibattuti dagli averroisti a Bologna erano i medesimi discussi alla Facoltà delle Arti a Parigi, e Marsilio da Padova dissertava con Guglielmo da Occam e Giovanni di Jandun su questioni politiche di importanza capitale per l’Impero germanico.
Le università formarono così il primo nucleo di una futura identità europea: l’Europa delle università cessò di essere solo un’espressione geografica, per divenire una comunità culturale. E anche venendo ai nostri giorni, e pensando alla globalizzazione (indubbiamente frutto di numerosi sviluppi politici, militari, scientifici e tecnologici), non dovremmo dimenticare che fu anche attraverso la rete universitaria che Fermi e i suoi colleghi italiani portarono i risultati delle loro ricerche negli Stati Uniti, così come Einstein riunì le esperienze scientifiche europee e americane delle tre università di Berna, Berlino e Princeton.
Credo che questi brevi cenni siano sufficienti per rispondere alla domanda “perché le università?”. Negli ultimi novecento anni, esse sono state crogiuolo di un’identità internazionale, e artefici dei capitoli più creativi nella storia della cultura occidentale.
Possono ancora svolgere un ruolo nel mondo globalizzato di oggi?
Innanzitutto permettetemi una citazione biblica.
Nel primo libro dei Re, capitolo 19, quando Elia si trovava nella caverna del Monte Oreb, allorché fu chiamato alla presenza del Signore, ci fu “un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce”; ma non in vento Dominus, recita la Vulgata, il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto; ma non in commotione Dominus, il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco; ma non in igne Dominus, il Signore non era nel fuoco.
Non si può trovare Dio nel rumore; Dio si palesa solo nel silenzio. Dio non è mai nei mass media, Dio non è mai sulle prime pagine dei giornali, Dio non è mai in TV, Dio non è mai a Broadway. Dio è, dove non c’è agitazione. Questa massima vale anche per chi non crede in Dio, ma pensa che da qualche parte esista una Verità da scoprire, o un Valore da creare. Non si possono trovare verità e creatività in un terremoto, solo in una ricerca silenziosa.
Nel tumulto del mondo odierno, gli unici luoghi del silenzio, accanto alle sedi di meditazione religiosa, restano le università. Sono ancora fra i pochi luoghi in cui è possibile un confronto razionale fra diverse visioni del mondo. Da noi universitari ci si aspetta che combattiamo, seppure privi di armi mortali, l’interminabile lotta per il progresso del sapere e della pietas. Non sono così ingenuo da dimenticare che la conoscenza non porta automaticamente pace e misericordia: la storia ci ha mostrato come le persone possono amare Brahms o Goethe, e allo stesso tempo essere capaci di organizzare campi di sterminio. Ma quelle stesse persone, prima di realizzare la loro soluzione finale, dovettero cacciare dalle università, una per una, tutte le menti critiche: l’università rappresenta da sempre un pericolo per ogni genere di dittatura.
Non di rado, gruppi di accademici hanno avallato il colonialismo, il razzismo e l’intolleranza. Ciò non toglie che è proprio nell’alveo delle università occidentali e delle accademie che il mondo moderno ha concepito quel nuovo approccio alle culture e alle civiltà che va sotto il nome di antropologia culturale. È grazie agli studi degli antropologi culturali del XIX secolo (che a loro volta si rifacevano a idee introdotte da Montaigne, Locke, e ai filosofi dell’Illuminismo) che oggi sappiamo dell’esistenza di altri modelli culturali, autonomi e organici, che vanno riconosciuti, compresi nella loro logica interna, e rispettati. L’antropologia culturale, sostituendo il concetto di cultura a quello di razza, ha lavorato in profondità per renderci tutti più consapevoli delle altre culture, e del diritto di ogni cultura a sopravvivere.
L’antropologia culturale non ha cambiato il mondo. Mentre gli antropologi ci insegnavano a riconoscere e rispettare comportamenti culturali, religioni e costumi etnici diversi dai nostri, il mondo occidentale fabbricava i Protocolli dei Savi di Sion, mentre i primi mezzi di comunicazione di massa, attraverso i romanzi popolari e i film di Hollywood, diffondevano l’idea dell’Altro come Cattivo: il feroce indiano, il nero stupido condannato a un destino di eterna schiavitù dalla sua irrimediabile inferiorità, il cinese col codino, eccetera.
Ma allo stesso tempo, i medesimi stereotipi venivano smontati proprio all’interno dell’ambiente universitario.
L’università è ancora il luogo in cui sono possibili confronti e discussioni, idee migliori per un mondo migliore, il rafforzamento e la difesa di valori fondativi universali, non ordinati negli scaffali di una biblioteca, ma diffusi e propagati con ogni mezzo possibile.
L’università è una Forza di Pace! Basta pensare al progetto Erasmus, che prevede la creazione di una nuova rete internazionale di clerici vagantes, i quali spesso si sposano fra di loro, preparando così, almeno in Europa, una nuova generazione di cittadini bilingui, immuni alle seduzioni di qualsivoglia nazionalismo.
Ma permettetemi anche di citare, a proposito dei doveri dell’università oggi, due compiti che ritengo urgenti e fondamentali.
Spesso ci viene detto che uno dei rischi a cui si espone chi è cresciuto con i mass media, specie le generazioni più giovani, è una crisi della memoria storica. Senza memoria non c’è sopravvivenza. Le società si sono sempre affidate alla memoria per conservare la loro identità, fin da quando gli anziani delle tribù sedevano ogni sera sotto un albero, narrando le imprese degli antenati. E quando, con un atto di censura, si cancella una parte della memoria sociale, la società entra in una crisi di identità.
In questo senso, le università sono ancora luoghi in cui le memorie comuni possono essere inventariate e conservate.
Ma la memoria non è solo inventario, è anche filtro. La memoria storica non è fatta solo di ciò che crediamo sia importante ricordare, ma anche di ciò che pensiamo debba essere dimenticato. Una delle funzioni della memoria sociale e culturale è fare da crivello.
Una cultura, in quanto memoria storica, non è solo un deposito di dati: è anche il risultato del loro filtraggio, e della capacità che abbiamo di scartare tutto ciò che riteniamo inutile o non indispensabile.
La storia di una civiltà è fatta di milioni di dati che sono stati sepolti. Spesso ci accorgiamo che questo processo ha comportato una perdita, e per recuperare le informazioni scomparse ci vogliono secoli. I nostri antenati greci avevano perso memoria della matematica egizia, e il Medioevo non ricordava buona parte della scienza greca. Analogamente, noi oggi abbiamo dimenticato il significato delle statue dell’Isola di Pasqua, e molte delle tragedie citate da Aristotele nella sua Poetica sono andate perdute per sempre.
Nondimeno, a prescindere da questi incidenti indesiderati, una cultura deve eliminare molte informazioni. Quali erano i nomi di tutti i soldati che combatterono a Waterloo? Che ne fu di Calpurnia, moglie di Cesare, dopo le Idi di Marzo? La cultura ha eliminato questi dati per non sovraccaricare la nostra memoria storica.
Peraltro questo processo di cancellazione non agisce solo nella cultura, ma anche nelle nostre vite personali. Jorge Luis Borges ha scritto un bel racconto, Funes el memorioso, su un personaggio che ricordava tutto: ogni foglia che aveva visto da bambino, ogni parola sentita nel corso della sua vita, ogni soffio di vento che gli aveva sfiorato la pelle, ogni frase che aveva letto. E proprio a causa di questa memoria totale, Funes era un idiota, paralizzato dall’incapacità di filtrare e scartare i risultati delle sue esperienze. Il nostro inconscio funziona perché rimuove. Se poi qualcosa ci turba, andiamo a chiedere al nostro psicanalista di recuperare ciò che avevamo rimosso, perché troppo imbarazzante. Ma è importante eliminare tutto il resto: l’anima è frutto di questa memoria selettiva; se la nostra memoria fosse come quella di Funes, saremmo animali senz’anima, cioè senza identità. La nostra identità non è fatta solo delle cose che ricordiamo, ma anche di ciò che riusciamo a dimenticare.
E tuttavia, una cultura non si limita a suggerire agli individui di dimenticare ciò che andrebbe rigettato perché inutile, ma spesso nasconde ciò che essi dovrebbero ricordare. È il ruolo della censura, che assume molte forme, fino alla damnatio memoriae. Una cultura però può censurare non solo per cancellazione e reticenza, ma anche per eccesso di informazione. Ho sempre sostenuto che c’era poca differenza fra la Pravda stalinista e l’edizione domenicale del New York Times: la Pravda censurava le informazioni indesiderate, il Sunday Times invece conta ben 600 pagine, che sicuramente contengono All the News that’s Fit to Print, tutte le notizie che vale la pena stampare, ma che con altrettanta sicurezza nessuno riuscirà a leggere per intero, neppure nell’arco di una settimana. Rischiamo di restare sommersi da un eccesso di informazioni, e la differenza fra il silenzio e il troppo rumore è davvero minima.
Indubbiamente, per quanto concerne il Sunday Times, il lettore ben informato è in grado di selezionare le informazioni pertinenti e di cestinare i supplementi che non gli interessano, ad esempio quelli su mercato immobiliare, sport, casa e giardinaggio, o magari l’inserto letterario. Ma che cosa sta accadendo oggi a quell’eccesso di informazioni che è Internet? Il rischio è che diventi come il cervello di Funes. Finora la società filtrava per noi i contenuti attraverso libri di testo ed enciclopedie; con il web, tutta la conoscenza e le informazioni possibili, anche le meno utili, sono lì a nostra disposizione.
Provate a interrogare il web su un argomento, ad esempio la Shoah. Non esiste alcun criterio che ci dica, a un primo sguardo, se un sito è opera di storici responsabili oppure di un gruppo filonazista negazionista. E se una persona di cultura riesce comunque a capire di che genere di sito si tratta, come se la cavano invece i meno informati che, per la prima volta, cercano sul web alcune nozioni di base sull’evento? L’incapacità di filtrare comporta l’impossibilità di discernere.
Solo le università (e più in generale le istituzioni di formazione) possono insegnarci come selezionare. Occorre inventare, e diffondere, una nuova arte della decimazione. Altrimenti, senza un’Enciclopedia Unificata delle Scienze, tutti avranno diritto a costruirsi la loro enciclopedia: avremo l’Enciclopedia New Age, l’Enciclopedia Nazista, l’Enciclopedia Astrologica, eccetera. Con una tale frammentazione della conoscenza, i sette miliardi di abitanti di questo pianeta potrebbero produrre altrettanti metodi di selezione ideologica, e sette miliardi di lingue diverse, tra loro intraducibili. Il web potrebbe diventare una torre di Babele, in cui si parlerebbero non settanta ma sette miliardi di lingue individuali.
La presenza delle università può costituire una garanzia per i tanti giovani (e meno giovani) che sono alla ricerca di un’enciclopedia affidabile. Creare un’Enciclopedia Comune non equivale a imporre un pensiero unico. È un terreno condiviso su cui verificare e comparare ogni differenza portatrice di ricchezza. L’università è l’unico luogo in cui si può applicare correttamente un approccio unificato alla diversità.
Ma le università sono anche un modo per offrire un eccesso di filtraggio. Le culture (o quantomeno la nostra cultura occidentale, con la sua impostazione filologica) hanno interesse a recuperare dati la cui perdita ci sembra una sventura. Per questo abbiamo bisogno del lavoro di specialisti, storici o archeologi: a loro chiediamo di risuscitare concetti ed esperienze che sono accidentalmente sprofondati nell’oscurità. Con quest’atto, la memoria collettiva può far riaffiorare i dati perduti e può risistemarli, se non in un’Enciclopedia Comune, almeno in una settoriale.
In questo modo, una cultura matura sceglie di mettere alcune informazioni in stato di latenza. Le informazioni in eccesso vengono, per così dire, congelate in modo che, al bisogno, gli esperti possano riscaldarle in un ideale forno a microonde e farle rinvenire, allo scopo di, ad esempio, decifrare un antico documento appena scoperto.
I luoghi di latenza sono assimilabili al modello della biblioteca o dell’archivio, indispensabili contenitori di una sapienza che può essere rivisitata, anche se non è stata frequentata per secoli. Le università, quindi, non sono solo luoghi di indispensabile filtraggio, ma anche, con le loro biblioteche e i loro archivi, custodi di indispensabili informazioni latenti.
Vorrei terminare con l’ultima ragione per cui il ruolo delle università è ancora fondamentale, soprattutto in un mondo che diventa sempre più virtuale: le università sono fra i pochi luoghi in cui le persone si incontrano ancora faccia a faccia, in cui giovani e studiosi possono capire quanto il progresso del sapere abbia bisogno di identità umane reali, e non virtuali.
(1 ottobre 2013)
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Annotazione: (a cura dell'autore del blog)
Eco, Umberto (Alessandria 1932), saggista e narratore italiano. Dopo la laurea in filosofia medievale, conseguita nel 1954 all’Università di Torino, lavorò fino al 1959 ai programmi culturali della RAI e poi presso la casa editrice Bompiani. Dal 1971 insegna semiotica all’Università di Bologna; ha tenuto vari cicli di lezioni anche nelle università statunitensi e al Collège de France. Collabora alla rivista “L’Espresso” e a diversi quotidiani italiani.
Eco ha inoltre una brillante vena di umorista colto, testimoniata in particolare da Diario minimo (1963) e da Il secondo diario minimo (1992). Tuttavia, è in qualità di narratore che lo studioso italiano è diventato famoso in tutto il mondo: Il nome della rosa (1980, premio Strega), un romanzo ambientato nel Medioevo, che unisce un intreccio giallo a problematiche filosofiche e politiche, ha venduto milioni di copie ed è stato tradotto in numerose lingue; il regista Jean-Jacques Annaud ne trasse l’omonimo film nel 1986. In seguito Eco ha pubblicato altri due romanzi di notevole successo: Il pendolo di Foucault (1988), storia di una cospirazione ma soprattutto disputa filosofica sulla natura della realtà e della verità, e L’isola del giorno prima (1994), che narra la vicenda, ambientata nel 1643, di un giovane alessandrino (come lo stesso Eco), naufragato nell’oceano Pacifico, agli antipodi dell’Italia, vicino al meridiano del cambiamento di data.
Marco Buonarroti
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